Entrano nel vivo i festeggiamenti in preparazione al carnevale 2018, anche a Mercato S. Severino e dintorni (zone limitrofe, quali il Baroniense e il Montorese – ricordiamo che soprattutto in Irpinia gli eventi carnascialeschi assumono caratteri da particolari tradizioni etnologico-antropologiche, più incisivamente radicate e interessanti). Per la XXII edizione delle sfilate approntate dal sodalizio “Il gabbiano” – frazioni Carifi e Torello – previsto un primo appuntamento domenica 11, dal mattino (ore 10), e poi (sempre in orario ante-meridiano, alle 10) un evento più partecipato martedì grasso 13 febbraio. La responsabile Rosa Ascolese, da anni al comando de “Il gabbiano” (realtà sorta già nel 2003, molto attiva nel comprensorio) assicura divertimento per le famiglie, sia inerendo i bambini che riguardo gli adulti. Per la prima edizione “mattiniera” del carnevale sanseverinese (negli anni scorsi la kermesse si teneva precipuamente in serata), occhio alla data di domenica 11: al centralissimo corso Diaz (ed, in seguito, per le strade cittadine) ci saranno artisti di strada, spettacoli di giocoleria, clown, trampolieri e trucca-bimbi (zucchero filato a iosa, a gogo). E largo, poi, alle danze: sfileranno cinque carri allegorici, “In fondo al mar” – Il gabbiano; “Peppa pig” – associazione giovanile “S. Anna” di Pandola; i simulacri dell’associazione “S. Croce” (di Castel S. Giorgio);
“Alfonso Gatto” di Curteri – con l’originalissimo e antico “Ntreccio” (con la canzone di “Zeza” o Lucrezia tra i più reconditi aneliti dinamicamente culturali dell’hinterland – grazie all’impegno fattivo dei soci del
“Gatto”, guidati da Luca Picarella); infine il fan club “La mitica 500” di S. Giorgio. Martedì le allegorie
saranno però ben otto (sei da Baronissi, il resto da S. Severino e Castel S. Giorgio) più lo “Ntreccio”. Ecco
alcune altre rappresentazioni: “La leggenda di Tex” e “Robin Hood”. Rispettivamente allestite (a cura) da
un’associazione di Capriglia: la “Madre Maria Pia Notari” e “Sogno e realtà”, da Baronissi. Ed inoltre, la
fantasia degli organizzatori ha reso tangibile l’effetto fiabesco veicolato da “Alvaa” (Aiello ed Acquamela di Baronissi), con “I Ghostbusters”; dal sodalizio “S. Maria delle Grazie” – Sava (frazione baronissina) – col suo “Il gobbo di Notre Dame”; inoltre altri simulacri sono stati ispirati al “Moulin rouge” e alle “Emoticons” – le faccine in uso sui social (come Facebook, Whatsapp…). Insomma, un programma di tutto rispetto, solamente da godersi. Le attrazioni si dislocheranno, tra musiche e balletti – grazie a tante altre, collaterali ma fondamentali, scuole di ballo irnine e soprattutto ai ballerini/figuranti – sia per l’abitato di Mercato S. Severino che in altre location: Solofra (nove febbraio, ore 18); Baronissi (alle 18, 10 febbraio); Piano di Montoro (ore 14.30 dell’11 febbraio); Baronissi (a carnevale, ore 16); Bracigliano e Borgo di Montoro (il 17 e 18 febbraio).
Il carnevale è un’occasione di sovvertimento del mondo, del Kosmos, dell’ordine costituito: “Semel in anno licet insanire” – recita un adagio attribuito a una tradizione romana; per un giorno “è lecito impazzire”. Nei giorni stabiliti per le antichissime feste greco-latine, ovvero nei Lupercalia, Saturnalia, Bacchanalia e Floralia, i servi assumevano i ruoli dei padroni – e viceversa. Un retaggio proseguito nel corso dei secoli, tra  Medioevo e modernità. Era, il carnevale, il tempo di grasse libagioni, di eccessi spesso incontrollabili (ad  esempio, gli eccidi del carnevale di Leroy-Ladurie – un pilastro dell’etnografia) e di Kaos, di disordine (cosmico). Addirittura veniva irrisa la dottrina della Chiesa, con la cosiddetta “Messa dell’episcopello”. Un  asino, bardato con paramenti sacri, veniva sarcasticamente “nominato vescovo” (episcopus) e veniva reso oggetto di scherzi, lazzi e frizzi, salaci e pericolosi, anche di natura sessuale. Il tutto, a simboleggiare il mondo che cambia, le stagioni, la natura e la morte – quest’ultima, sempre da esorcizzare e da non curare.

Il termine “Carnevale” potrebbe derivare da “Carrum navalis”, “Carnem levare”, “Caro, vale!” (cioè: “Ciao, carne!”) o comunque da consuetudini legate al cibarsi di carne – prima delle ristrettezze della Quaresima (Quadragesima dies, periodo di quaranta giorni – a mo’ di quarantena). Che –per l’appunto – inizia il giorno dopo il Martedì grasso (il mercoledì delle Ceneri, quando l’uomo “ricorda” a sé stesso che è nulla, rispetto alla Divinità). Quaresima e avvento sono tempi liturgici forti, per ravvedersi in procinto di giungere alla Pasqua – la Pesah ebraica (“salto”, sia come danza ritmica dei sacerdoti ebraici che quale “passaggio” dal Mar Rosso alla libertà, alla terra promessa). Tutto un ciclo, quindi. Che termina col primo plenilunio di primavera (la Pasqua di resurrezione, festa mobile “alta” o “bassa” – in genere dal 23 marzo al 23 aprile). Quando si ricomincia a mangiare “grasso” – la natura rinasce alla prosperità. Ed infatti, sulla tavola dei Sanseverinesi a Pasqua non si bada a spese: l’economia domestica e culinaria prevede assaggi di brodo di gallina o di piccione, magari con erbe amare (come per gli Azzimi, per le festività sionistiche del Kippur o dello Zuckot, delle Capanne) e cicoria o minestra; si prevede inoltre il degustar uova, simbolo di rinascita; di agnello o capretto; di carciofi nelle varietà conosciute (di Pietrelcina, di Paestum, romana, eccetera). Si “ingegna” il salame, ma tra i dolci più tradizionali, nessuno potrà battere – in un’ideale gara gastronomica tra eccellenze – la tipica pastiera (pizza) di grano o di riso. Preparata con ingredienti davvero, appunto, primaverili (il grano dell’altare della reposizione, alias “sepolcro”, derivato dagli ancestrali giardini di Adone;
la ricotta – il latte simboleggia l’infanzia…). Le donne di S. Severino e dintorni preparavano i “vuccilli” – con la pasta avanzata dalle torte di grano o riso: due dolci con evidenti forme antropomorfe e sessuali. Per la Pasquetta, ovvero il lunedì in Albis (detto così per il nitore bianco delle vesti fulgide dell’angelo al sepolcro di Gesù ma anche perché i cavalieri medievali trascorrevano la notte “in bianco”, ed il giorno dopo ricevevano l’investitura con la tunica “candida” – donde il termine “candidato”) ci sono, da mangiare: il migliaccio di mais e il pastiere (rigorosamente maschile) di maccheroni – in alcune varianti della Valle Irno dolce e con le foglie di alloro. Ma torniamo al carnevale: questo periodo nasce già, in realtà, dal giorno di S. Antonio abate (17 gennaio) – il santo che ripercorre il mito di Prometeo, nel rubare il fuoco agli Inferi. Da questa data in poi, largo ad assaggi di soffritto (con interiora di vitello o, soprattutto, di suino: cuore, fegato, polmoni, reni o rognoni condite con pomodoro e peperoni rossi, poi con alloro) e di lasagne, polpette, bomboloni, krapfen e chiacchiere (dette, nelle regioni italiane: fracchie o frappe, cenci, bugie… insieme alle castagnole). Non può mancare, in tema di carnevale, il “mitico” (è il caso di dirlo) sanguinaccio.
Con sangue di maiale (di cui, si dice, non si butta mai niente) sciolto nel cacao e nel cioccolato. Sempre a
carnevale, ricordiamo le figure della cosiddetta: “Commedia dell’arte”.
Maschere, dal latino: persone (attraverso la maschera, la voce “personava” – risuonava).
Personaggi bislacchi e buffi, simboleggianti virtù e difetti umani “regionali” sono noti a tutti – grandi e
piccini: abbiamo il dottor Balanzone a Bologna “la grassa” o “la dotta” (seconda università italiana dopo la Schola medica salernitana o Hippocratica civitas); Stenterello, Arlecchino, Brighella (in Lombardia);
Buffalmacco (e non solo) in Toscana, Pantalone in Veneto (avarissimo – come probabilmente saranno i
veneziani). Infine, ricordiamo capitan Fracassa. Quest’ultimo, pare, sia stato ispirato da un principe
Sanseverino spaccone e millantatore: Gaspare Sanseverino. Infine, ricordiamo Pulcinella. La maschera
partenopea, napoletano per eccellenza (ad emblema del sapersela cavare, della furbizia e della scaltrezza).
Rappresenterebbe la morte (bianco e nero, come il coreano Yin e Yong) ma anche la fertilità e vivacità
sessuale – quando cavalca la “vecchia”. Secondo alcuni etimi e/o derivazioni linguistici, potrebbe trattarsi di
un poco noto, semisconosciuto Oddone di Polliceno; oppure dall’inglese Paul Cinelli o anche da Puccio
d’Aniello. Non sapremo mai la giusta etimologia. Al termine di questa appassionante carrellata, capiamo
come sia importante lo “sfogo” offerto dal carnevale al “popolino” grasso (o magro) anche delle nostre
zone… Il sovvertimento è necessità antropologica, fisiologica, mentale e sessuale. Basta non esagerare,
eccedere. Bando dunque i manganelli dei bulli, le fialette puzzolenti e le bombolette spray. Che tutto
avvenga in un clima sereno e tranquillo…

ANNA MARIA NOIA

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